Con il cuore in panca


Il mondo che guarda, e la festa è più privata che mai. Il biondo d'importazione arrivato dalla terra delle bionde da esportazione si è rifugiato lontano dagli occhi. Poi è tornato, sobrio come sempre, sobrio come un tedesco biondo prima della bionda. Il volto segnato soltanto dall'incredulità e dalla fatica dovuta all'impresa. Poi il trofeo. La festa è pubblica. Il mondo guarda.

Dirk Nowitzki è il re della scena, mentre il sovrano predestinato saluta dalla fascetta e si congeda con lo sguardo basso. LeBron James aggiunge un'altra tacca alla riga dei fallimenti. Ma il nuovo dominatore dell'aria che sovrasta i cerchi di ferro deve molto alla sua corte, forse quasi tutto. I cesti ostili per tutta la sera, poi i colpi della svolta. Però se il regno è regno è grazie a chi la scena non la domina affatto. Dallas sorride sul tetto del mondo, ed è una prima volta che sa di rivincita come quasi mai era accaduto. I Mavericks e l'anello, conquistato con le gambe in campo e con il cuore in panca. Con la fame di seconde linee che seconde non sono. Astri che erano nati già da un po', ormai a un passo dalla parabola discendente per via delle crudeltà anagrafiche. Veterani o quasi. Campioni in senso stretto ormai all'ultima chiamata. Hanno risposto. Si son detti pronti. Il mondo guarda la festa del biondo e dei suoi fratelli di un altro colore.

Machete


Spaccone è bello. Poteva risolversi tutto in un bagno di sangue lungo centocinque minuti, invece c'è stata concessa pure una storia degna di rispetto. Niente di nuovo sotto il sole del Texas, se non la dignità ritrovata di un cinema trash che si atteggia a pulp, categorie di cui Robert Rodriguez è sempre più il re incontrastato.

L'operazione nostalgia è tutt'altro che finita. Dopo gli eccessi di Planet Terror, continua la full immersion nell'estetica dei b-movie anni Settanta. Codiretto da  Ethan Maniquis, Machete è in tutto e per tutto un film di un'altra epoca, anche se l'anno di produzione scritto sui credits si ostina a dire il contrario. Merito e colpa di scelte stilistiche che rifanno le mosse di un cinema ormai andato. Rodriguez propone un nuovo revival, con tutte le forzature del caso ma senza limitarsi a scene splatter prive di anima, alle tasche improbabili, alle donne uscite tutte quante dai migliori sogni erotici di sempre. Nessuna esclusa. Mentre il personaggio interpretato da Danny Trejo è brutto e violento, ma anche giusto e macho al punto da far cadere ai suoi piedi qualsiasi chica. Fa innamorare Jessica Alba e Michelle Rodriguez. Robert De Niro e Steven Seagal, però, lo vogliono morto quanto prima.

Machete è una pellicola onesta. Grottesca già dal trailer, non nega mai la sua vera natura. Ma dietro la patina dell'assurdo traspare neanche tanto in controluce una storia di odio razziale, di politici manipolati, di ronde omicide, di complotti e di tradimenti in nome del profitto. Il regista, texano ma di origini messicane, mette la firma su un film che trasmette rabbia, frustrazione e voglia di riscatto. E affonda il colpo con un'arma da taglio a dir poco enorme sul problema dell'immigrazione della sua gente in un'America in cui libertà fa spesso rima con menzogna e ipocrisia. E' la rivoluzione di una giustizia che va oltre i dogmi stantii della legge. L'enfasi della violenza è soltanto grasso che cola su una trama che ha tanto da dire.

La fine è il mio inizio


Divieto di lacrima. E' il paradosso dei paradossi: un addio lungo un centinaio di minuti ed è vietato piangere. Un diktat che arriva proprio da chi sta per andarsene. Senza frasi fatte, ma con frasi fatte di fatti. Racconti di una vita vissuta a pieno. Inseguendo sogni, cercando l'uomo nell'uomo, indagando nei suoi frangenti più difficili, come la rivoluzione cinese o il dramma vietnamita. Tiziano Terzani è stato un genio a trovare il bene nel male, soprattutto verso la fine. Che poi era il suo inizio.

Arriva dalla Germania la pellicola che racconta gli ultimi momenti del grande giornalista nato e tornato in Toscana. Un fiume di parole sul cuore dell'uomo girato nel cuore dell'Italia, paesaggi grandiosi messi in musica da una natura avvolgente e dai tasti di un Ludovico Einaudi che con il suo piano accompagna Tiziano verso il saluto finale. L'ex-cronista ha scoperto di essere malato, così ha deciso di chiamare il suo primogenito per fargli raccogliere le sue memorie. Ne è nato un libro bestseller, La fine è il mio inizio, stesso titolo di una trasposizione cinematografica improntata sulla semplicità. Un lavoro riuscito senza tanti artifici. Potere alle atmosfere della Toscana più vera, ma soprattutto a un dialogo tra padre e figlio che sa tanto di crescita.

Dapprima Fosco sembra un pesce fuor d'acqua, e di certo non aiuta l'interpretazione scialba e un po' smarrita di un Elio Germano che con il suo talento avrebbe potuto dare qualcosa di più. Ascolta il suo genitore, a volte ci litiga. Poi andrà a caccia di grilli in memoria dell'infanzia che fu, fino a capire che nonostante il dramma alle porte non c'è proprio niente da piangere. E allora niente lacrime, anche se per il pubblico in sala è una vera sfida. Il babbo se ne va e lo si dice con un sorriso, al culmine di un inno alla vita attraverso la morte.

La fine è il mio inizio è un concentrato di saggezza, il testamento di un uomo che non ha più niente da perdere, e che per questo ha tanto da regalare. E' stato un esploratore di mondi umani e non solo, ma non chiamatelo intellettuale. Lui preferiva definirsi una persone "fisica", anche se il trucco per un trapasso sereno è dimenticarsi di avere un corpo. Un corpo reso vivo fino alla morte da un Bruno Ganz a dir poco magistrale, con il suo recitare intenso che è la vera anima di una pellicola fatta di tanti dialoghi e pochi silenzi.

Dylan Dog – Il Film


Di nome ma non di fatto. L'Indagatore dell'incubo dei fumetti Bonelli sbarca al cinema, ma non è che un surrogato. Più che un film dell'orrore, il film dell'errore e del malinteso. C'è Dylan Dog, ma in realtà non c'è. Ha le fattezze dell'ultimo Superman di celluloide, un Brandon Routh tanto carico di muscoli quanto scarico di espressività. Ed è inevitabile rimpiangere il Rupert Everett di Dellamorte Dellamore, opera prima e pure nostrana ispirata al personaggio inventato nell'86 da Tiziano Sclavi, autore di un fumetto che tra alti e bassi resta ancora uno tra i più letti e apprezzati d'Italia. Storie surreali e piene di pathos. Orrore vero, ricreato affondando a piene mani nella tradizione più pura di quello stesso orrore. E Dylan è un protagonista capace di essere protagonista davvero, carismatico pur senza ostentarlo. E senza steroidi.Le atmosfere sono quelle tipiche del film di cassetta, con una tensione vicina allo zero assoluto e con caratterizzazioni svuotate di senso.

E' il cinema di chi si accontenta, un film perfetto per chi Dylan Dog non lo conosce affatto. Gli altri restino pure incollati alle pagine di carta, l'Indagatore dell'incubo è molto meglio leggerlo. D'altronde il regista Kevin Munroe l'aveva detto: "Non si può appiccicare il fumetto sullo schermo". Un tentativo sarebbe stato comunque apprezzato.

E' lo stesso film a essere pieno di debolezze, forse penalizzato da una produzione sofferta e segnata da tante riscritture. Godibile soltanto per mezzora, la pellicola prosegue tra sequenze poco credibili e situazioni risolte in modo disarmante, un make up fermo agli anni '80 ed effetti non tanto speciali. Per non parlare di personaggi senz'anima come i tanti "non morti" sulla scena. Lo stesso Dylan vuole fare troppo l'americano. Rispetto a oggi, all'epoca Everett lo smilzo partiva con alcuni metri di vantaggio rispetto a Routh il palestrato: il protagonista del fumetto era stato creato proprio sulle sue fattezze. Ma l'ex-Superman recita ancora come fosse un Uomo d'Acciaio, cosa che di certo non aiuta.


Questo Dylan Dog è troppo action movie per essere lui, troppo Twilight per essere vero. L'antica faida tra vampiri e lupi mannari è infatti ancora una volta il pretesto per riempire le sale. O quantomeno per provarci.

(Questa recensione è stata gentilmente pubblicata anche su Occhi sul cinema)

Tron Legacy

Il padre, il figlio. Manca solo lo Spirito Santo. Tron Legacy è un mostro di bellezza, per gli occhi e per le orecchie. Ma è soprattutto una metafora, la rivisitazione in chiave futuristica di una storia invecchiata già di duemila anni e oltre. Il creatore e il programma, il figlio che entra nel regno del padre. Tutto ha il suono di un cristianesimo ipertecnologico. Con una marcia in più: l’autocritica di chi ha messo in moto tutto quanto, avido di perfezione, e per questo creatore del male. Ma non è forse Lucifero nato da un errore di Dio?

Il sequel del film-mito targato Disney arriva dopo ventotto anni, e non certo per mettere nero su bianco un trattato di teologia spicciola. Ma i riferimenti sono tanti, forse pure troppi. L’immaginario cristiano s’intreccia con quello americano in senso stretto. La progenie che deve risolvere le beghe del padre: un cliché visto e rivisto. Più che un ripetersi fine a se stesso, è l’esaltazione di un vero e proprio mito fondativo. Sam contro Clou, il programma creato da suo padre, lo stesso Kevin Flynn del primo film, frutto del sogno deviato di un mondo perfetto anche se virtuale. Seppur con l’intenzione di cambiare le cose anche in quello fatto di atomi e non di bit.

Tron Legacy non eccelle in originalità. Non innova, ma rinnova la leggenda cinematografica che fu. Era il 1982 quando il primo capitolo della saga arrivava nelle sale di tutto il mondo. Già all’epoca si presentava come un film all’avanguardia. Oggi l’unico ostacolo allo stupore è il solito, insulso 3D, che come sempre scurisce e sfalsa i colori con il pretesto di quel feticcio irrisorio chiamato profondità. Per il resto sono due ore e più di adrenalina pura, grazie a un impatto visivo sorprendente giocato su cromatismi semplici e netti sviliti soltanto dagli occhialini per la terza e inutile dimensione. Azzurro e arancione dominano su sfondi grigio-neri, creando un’atmosfera claustrofobica e penetrante. Poi il miracolo dei Daft Punk, autori di una colonna che è sonora ma soprattutto portante. Non accompagnano il film, ne scandiscono i tempi lasciando la netta sensazione di essere davvero in un futuro prossimo venturo. Il padre e il figlio hanno scelto proprio bene.

Comicus revolution!

Poco prima del tempo di torroni e panettoni, c’era chi festeggiava i suoi primi dieci anni. E lo ha fatto senza lasciare niente al caso, rilanciandosi con un nuovo impianto e una nuova immagine. E’ Comicus.it, leader nazionale dell’informazione su fumetto e dintorni. Una nuova veste ispirata ai “cugini” statunitensi, con l’ambizione di diventare più puntuale, più tempestiva, ma anche più critica e partecipe del grande dibattito sulla nona arte. Un mondo che dicono sia perennemente in crisi, mentre i nuovi editori spuntano come funghi con proposte di tutto rispetto e i distributori di varia si affacciano sul mercato delle nuvole parlanti quasi come fossimo in Francia. Alla faccia della crisi.

Comicus c’è, e soprattutto ci sarà. La voglia di fare è tanta, l’organizzazione è sempre in fermento. Chi non può più restare se ne va, lasciando spazio a leve nuove e promettenti. Saluto il buon Davide Morando, che tra le altre cose ha contribuito a far crescere la mia penna facendo di me uno scribacchino un po’ meno scadente. Metto Comicus al pari di questo stesso blog per il ruolo che ha avuto nella mia crescita professionale, due palestre di scrittura in cui migliorarmi continuamente. E saluto Valerio Coppola, il mio concittadino che non ho mai conosciuto di persona, che di recente è subentrato a Davide come responsabile delle recensioni. Congratulazioni a chi va e a chi resta. E a chi in Comicus investe impegno e fatica. Che la passionaccia sarà pure quella di Mentana per il giornalismo generalista, ma è anche quella delle nostre penne vibranti che amano così tanto il fumetto. Un’arte che sembra ormai preistorica, di fronte a tablet e smartphone di ogni marca e modello, ma che invece è dura a morire. Semre pronta ad evolversi senza mai tradire la sua vocazione originaria: raccontare storie che lascino il segno. Il segno di una penna, di una matita, di una china o di una botta di pennello.

Il male legale

Ci sono anime con le ali, ma per cui il vento è un lusso non autorizzato. Lo spazio vitale è ristretto. Pochi metri per rincorrersi il ricciolo, per mangiare l'immangiabile. Veleno. E li chiamano porci, in uno strano gioco delle identità che annienta la dignità e tarpa le ali di quelle stesse anime. Mentre i veri ingordi si nutrono della loro stessa morte. Delirio. Suicidio silente e inconsapevole.

E nella terra della libertà dichiarata c'è chi rischia di morire in nome di valori scritti con pennarelli indelebili. Mentre nella vita l'unica cosa che non si cancella è la certezza del suo esatto contrario. L'odio è l'olio di un meccanismo di potere e prepotenza. Il limite invalicabile, il filo spinato che è stato tranciato di netto a colpi di male parole. Si mozza la mano a chi la porge. Spari uccidono l'aria e quella soltanto. No, volano via anche sei anime al loro ultimo giro d'ali. Il resto è paura. L'insana consapevolezza di un male legale. Di una politica che avvelena come diossina, trasportata dal vento di quel limite che non c'è. Quel vento che non accarezza più un'umanità che batte ed abbatte nel folle gioco dei suoi porci comodi.

Megamind


Quando il bene non va bene e il male non è poi tanto male. La casa madre di Kung Fu Panda e dell'orco Shrek ha preso i supereroi e i loro nemici di sempre. E li ha rovesciati come fossero calzini. In Megamind ci sono tutti i cliché di quello che ormai è diventato un vero e proprio genere. Se ne fa una parodia che non è mai banale, e qualche volta ci si concede pure il lusso di spiazzare un po'.

Tra gli stereotipi delle storie di uomini in calzamaglia che da decenni pervadono l'immaginario americano (e non solo), ce n'è uno che in Megamind spadroneggia e apre la strada a qualche lampo di genio: quello del bene che, molto spesso, per fare del bene finisce per creare il male. Un nuovo male. Tra buoni e cattivi c'è sempre un legame biunivoco, ma nell'ultimo film della Dreamworks la confusione (voluta) dei ruoli è così forte da offrire uno scenario ai limiti dell'originale.

Difficile inventare qualcosa di realmente nuovo. Sulle pagine dei fumetti, i supereroi sono stati proposti un po' in tutte le salse. E anche al cinema, con il prepotente revival dell'ultimo decennio, sono ormai diventati quasi dei veterani. Ma funziona l'idea di un villain in cerca di redenzione, perché diversa dalla solita, banale espiazione. Megamind sembra suggerirci che nell'epica più che settantennale di Superman e nemici annessi vi sia una sorta di grande equivoco. E il cervellone blu protagonista della pellicola sembra quasi un Lex Luthor, uno involontariamente comico, che trova una via d'uscita a una vita piena di rimpianti. Senza quasi cercarla. Quasi per caso, come fosse un destino che si compie. Smascherando, poi, quelli che sembrano essere i veri grandi avversari da battere, addirittura le radici plausibili del male: il conformismo, il disagio sociale, il culto del bello e del vano. Questo è il grande equivoco. Parola di un cattivo che poi tanto cattivo non è.