Per Rina

L’ho temuto. Se n’è sempre stato lì, tipo spauracchio. Ho sempre temuto e immaginato questo momento. Eri la mia nonna eterna, quella che si rialzava sempre, puntuale, dopo ogni apparente k.o. Eppure, io, questo momento me lo sono sempre immaginato. Ora eccomi qui, con una tastiera e i ricordi da mettere in sequenza prima che il tempo si faccia vento e me li soffi via, come sempre inesorabile. Ora sono qui. Io che non piango, io che sono il più becero dei bugiardi. Perché la pioggia lì fuori cade al tempo della mia. Mentre tu sorridi anche da di là.

Tornerò a sorridere anch’io, ma per ora è pioggia. Tornerò a sorridere. Te lo prometto, nonna. Sarà il mio modo di portarti dentro, ora che qui fuori non ci sei più. Tornerò a sorridere, ed è una promessa vera. Perché è quello che mi hai insegnato anche senza insegnarmelo. Tu non davi lezioni. Davi esempi. Ho imparato più cose osservandoti che in anni e anni di studi. Perché un cuore grande è il più grande dei maestri. E, quando si ferma, non si ferma mai davvero. Continua a battere in altri petti. Per nuovi sorrisi, contro una nuova pioggia.

Sono qui, con il solito flusso che fatica sempre più spesso ad arrivare, mentre inscatolo i momenti per non smarrirli tra il disordine di pensieri che sembrano non avere inizio né fine. Sono qui che rinuncio agli automatismi della mente, e appena ci riesco è di nuovo pioggia. Ma io non piango. Io sono il più becero dei bugiardi. Sono qui che cerco di emularti. Sono qui che mi ripeto che sono tuo nipote, ed è come se non fossi autorizzato a perdere liquidi dagli occhi. Perché tu sorridevi, sorridevi sempre. Lo sanno tutti. E mi sento come se io, adesso, non potessi piangere. All’inizio mi sono sentito come dentro un film. All’improvviso, però, qualcosa è cambiato. In quella camera mortuaria l’aria condizionata era la stessa, ma il cinema ormai era chiuso. E fa ancora un freddo irreale. Le proiezioni sono finite da un po’, in questo raggelante clima da obitorio. La pellicola finisce nel momento in cui realizzi che il film non è mai iniziato. È come quando si frantuma la quarta parete. I personaggi ti parlano, e tu cominci a credere che non ci sia niente di finto. Finalmente la realtà morde. La bolla di finzione è scoppiata. E io con lei. In lacrime.

Lacrimo a tratti, come singhiozzi rapidi e incontenibili. Mi hanno privato di uno grossa parte di me, ma sono come anestetizzato da un presente che corre e che non si fa afferrare. La ferita è fresca. Senza strappi, ma c’è. Nessuno poteva immaginare. Nessuno, tranne te, che in quell’ultima maledetta domenica hai detto che sarebbe stato il tuo ultimo giorno. Il corpo lo sa. Lo sa prima di tutti. A noi non resta che questo smarrimento, la consapevolezza che niente sarà più come prima. Ma non puoi vedere tutta la voragine, finché ci sei dentro. Ti accorgi sempre tardi dei sorrisi che mancano. Di quelli più belli, che sono anche quelli più dolorosi, quando li perdi. Funziona così con le belle donne. Funziona così con le belle nonne.

Dirti addio è stato un pugno allo stomaco, un cazzotto in faccia. Ma non uno di quelli finti che piacevano a te. Eri pacifica, e a dirlo erano i tuoi sorrisi. Non importa se ora si è fermato: tu avevi il cuore d’oro, e lo sanno tutti. Eppure ti lasciavi sedurre da quei cazzotti sparati a salve, senza cattiveria. Avevi gli occhi da angelo, ma ti sganasciavi con Bud Spencer. Ti divertivi a guardare la boxe e le moto che cadevano. Chiedevi: “Cu fa, Valentino?”, ma ho il sospetto che fantasticassi sui potenziali capitomboli di quei centauri, proprio come durante il Tour de France, quando domandavi: “Ma le ròt en fat del légn?!”. E poi dicevi: “En tutti atachèti… Se se tocne fan un macèl”.

Ricordi. Ricordi. Montagne di ricordi. Sono cresciuto anche con te, che sei sempre stata la mia mamma in seconda. Lo sei stata per tanti, ma tu nemmeno lo sai. Generi, nipoti, amici dei nipoti. Sei stata la matriarca silenziosa di una famiglia che va oltre le parentele più dirette. Tu non hai idea di quante persone ti apprezzassero. Ho contaminato internet con le tue perle, le tue espressioni improbabili, le tue parole inventate ma mai fuori tema. “Era diventata un po’ anche la nostra nonna”, mi ha scritto qualcuno in questi giorni di buio inatteso. “Tua nonna è immortale, io non la dimenticherò. Resta un mito di ironia e cuore”, ha detto qualcun altro che non ti ha mai visto se non in foto, ma che di te aveva già capito tutto. Ne ha fatta di strada, la “mulinàra”. Anche se con una gamba un po’ più infelice dell’altra, anche con il girello e con il tremolìo. Sorrisi e schiettezza superano i limiti di un corpo a orologeria. Ed entrano nel cuore di chi sa capire.

L’ultima foto che ho di te è quella di una specie di pranzo hippie consumato sul tuo letto, con intorno diverse persone che ti vogliono bene. Tu che mangiavi da sola la tua insalata di riso, “perché el ris fat acsì me piec”. Ma poi? Cosa resta, ora, in questo spartiacque così irreversibile? Cosa rimane dei nostri riti della domenica? E delle tue mele a metà? Cosa resta delle rose che non ho finito di regalarti? E delle mezzore che rubavo al mio eterno dovere per venirti a trovare, consapevole che un giorno mi sarei pentito di ogni minuto non speso insieme? A pensarci bene di cose ne restano tante, oltre i letti e le poltrone vuote dentro una casa senza più televisori con il volume alle stelle. Restano i ricordi. Resta il mio appetito irrefrenabile così simile al tuo, e l’immagine di me che cercavo di distrarti dai pensieri brutti chiedendoti cos’avessi mangiato a pranzo. Restano i tuoi sguardi luminosi impressi sulla retina, nella mente, in mille e più fotografie. Restano le tue parole ficcanti come frecce. Colorite, colorate, imprevedibili. Restano i miei cantanti, quelli che parlano invece che cantare. Resta il sospetto che tu, in realtà, abbia scelto consapevolmente quando andartene. Hai aspettato di rivedere tutti i tuoi nipoti. Tutti. Hai aspettato che quelli più lontani riprendessero i loro aerei per venirti ad abbracciare. Hai aspettato persino quel mio amico che vive in Giappone ma che tu hai visto crescere, e che un tempo si era fatto ventisette ore di volo. E tu: “Du vai? A l’inférne?!”. Hai stretto di nuovo tutti, come fossimo i bulloni del tuo charter diretto in paradiso. Poi ti sei congedata, in un sonno così profondo da farsi eterno, non a caso nel giorno numero 23.

E c’è chi non ha fatto in tempo a conoscerti. La tua magia più grande, forse, è proprio questa. C’è qualcuno che non ti ha mai visto, eppure ti adora già da un po’. È il miracolo della mulinàra, della Paradisi. Mai un cognome era stato così profetico. Poteva, una faccia d’angelo come la tua, non chiamarsi così? Tu che hai fatto ridere e sorridere gente sparsa in tutto il mondo. Era questa la tua forza. Ed è questa, ora, la tua eredità. Se solo si potesse, brevetterei già domattina la tua voglia di vivere, al dì là dei pessimismi ostentati e della stanchezza di una vita accomodata su una poltrona arancione. Ma tu sei sempre stata tu, quella che diceva di non volere il loculo con vista mare, per carità, “perché dop, malì, fa fredd”. Sei quella delle assurdità autorizzate, della bontà sconfinata, dei sorrisi regalati senza chiedere niente in cambio. Sorrisi che oggi, con questa pioggia dentro, si fanno ombrelli.

Ma adesso basta lacrime. Gli ombrelli non servono più. Penso al tuo sguardo e alla tua spontaneità. Penso alla gioia che trasmettevi come una profetessa non autorizzata. Ed è anche questo il tuo retaggio, la tua pesante eredità, che si fa leggera al pensiero di te. Non c’è niente per cui piangere. Saluta nonno, e fate i bravi. Noi restiamo qui, finché possiamo, a spargere sorrisi in giro con sopra il tuo marchio. Per portare un pezzo di Paradisi in più in questa Terra che ha sempre più bisogno di cuori come il tuo.

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Rumoroso silenzio, inesorabili lancette

Oggi è già ieri, e un altro tuo compleanno se ne va via così, nel rumoroso silenzio di tutto il nostro da fare. Ne avresti compiuti novantaquattro, nonno. Io non me li so proprio immaginare, i novantaquattro. Ti chiedo come sono, ora che sei lassù ormai da un po’. Raccontameli, lo sai che mi piacciono le storie. E dimmi pure come ci si sente a guardarci dall’alto verso il basso, ora che le candeline sono finite, ma non la mia voglia di celebrarti.

Auguri, nonno.
Gli angeli hanno imparato, poi, a riparare gli orologi? Perché qua il tempo scorre troppo, e in un modo un po’ strano. Secondo me c’è qualcosa che non va. Ce lo butti tu, un occhio?
Grazie.

Con affetto.

 

-Simo-

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Nel grigio dipinto di grigio

Grigio il cielo che fa da tetto a questa naturale assurdità. Grigio l’asfalto su cui aspetto la carovana delle frecce a due ruote. Grigio io che sto cercando di lavorare con un pezzo di cuore altrove. Grigio tu che ne stai andando in questo momento. E nel mentre piove.
Piove grigio anche per te.

Ciao Grigione. La tua ultima volata è finita. Ti ricorderò per il tuo sguardo torvo ma tenero. Per le pennichelle con la fronte piantata in basso. Per le finte fughe in giardino, senza staccare mai lo sguardo da me. Per la tua voracità. Per gli “strozzoni”. Per il pelo malconcio. Per la paura che mi allontanassi le gatte. Per la dolcezza che non ci siamo scambiati.

Soprattutto ti ricorderò perché hai scelto il nostro tappeto – quello all’ingresso – per venirci a dire che te ne stavi andando. Forse avevi paura. Forse è stato il tuo modo di chiederci aiuto. Semplicemente, forse, non volevi morire solo, tradendo ogni leggenda sulla tua specie. Quel che è certo è che hai scelto noi per i tuoi ultimi istanti, e ora non so dirti se mi senta più grato o più lusingato. So che ti ricorderò per i nostri sguardi fugaci. Che mi resterai dentro soprattutto per la tenerezza del tuo gesto finale. E per l’unica carezza che ti ho fatto. Chissà se l’hai sentita.

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Duna Park (2017, grazie)

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Mille uomini intorno a me. La mia faccia, le mie movenze. Mille me. Li guardo, li osservo. Mi riconosco senza riconoscermi in loro. Sono mille versioni di me – con la mia faccia, le mie movenze -, ma non so se credere che sono davvero io. Ho paura. Non so più chi sono, in questa stanza degli specchi non deformanti. Mi guardo intorno e trovo facce note, con le mie particolarità, i miei tic, i miei annosi difetti. Difficile cedere all’idea di essermi trovato. Sono proprio io quell’uomo lì – ragazzo fino a ieri – piantato dentro lo specchio e moltiplicato per mille? Io ho paura, ho paura a crederci. Perché tra un anno potrei non riconoscermi più. Potrei non ritrovarmi più. Perché oggi sono io, tra un anno chissà. Perché in trecentosessantacinque giorni sono stato costretto a cambiare pelle, faccia, corpo. Oggi mi specchio, e vedo mille me. Un me che, un anno fa, proprio non c’era.

Dodici mesi di piccole e grandi rivoluzioni. Quello allo specchio, oggi, è un uomo irriconoscibile, segnato dagli eventi, agitato dalle prospettive. L’uomo di un anno fa era pieno di preoccupazioni. Quello di oggi ne ha altrettante, ma sono tutte cambiate. Vorrei – vorrei davvero -, ma non so vivere senza tensioni. La loro natura muta nel tempo, così come muto io, che muto non so stare. Ho bisogno di parlare. Ho bisogno di scrivere. Non ho bilanci da fare, soltanto sommosse interiori e poco sommesse di cui dare conto. Sono un narratore, io, e ne sono sempre più convinto. Un artigiano del racconto con in mano ancora troppi pochi ferri del mestiere. Io che oggi mi guardo, e che mi sorrido in modo beffardo prima di raccontare di me. Di me e del mio ultimo anno, prima – chissà – di cambiare ancora. Un anno di rotture e di riparazioni fallite. Ho provato a rammentare lì dove c’erano buchi, ma non avevo per le mani delle toppe abbastanza grandi, tantomeno robuste. Nell’ultimo anno ho chiuso il cuore a chi non sapeva più come appagarlo, e l’ho aperto altre due volte rischiando di perderlo una volta per tutte, annegato nel dispiacere e nello sconcerto. Ho messo fine a un autoscontro che fatica a salvarsi, al netto di qualche constatazione amichevole. Poi ho chiesto la mano a due persone diverse, ma la prima me l’ha fatta restituire. Ha deciso di scendere da quella che credevo fosse la nostra bellissima giostra, attratta da altre luci, ormai incapace di vedere la mia. Porto ancora i segni di quello strappo senza preavviso. Poche cose mi hanno segnato così, poche volte ho sognato così. Ma i sogni si fanno a occhi chiusi. Ora li ho aperti. Ho faticato, metà del mio anno l’ho trascorso a domandarmi dove stesse l’errore, a formulare risposte sempre diverse, a scacciare i demoni della memoria tenendo fede alla mia versione dei ricordi. Credevo di vedere degli angeli, in quella che, in realtà, era la casa delle streghe. Senza scopa, senza rughe, senza apparenti difetti. Con un bel paio d’ali, per giunta. Vibrazioni fatate per una folgorazione fatale. Sono state le streghe stesse a scacciarmi. Mi han fatto uscire di forza dalla loro casa fumosa, senza più esser certo di cosa avessi visto. Certi calcinculo fanno davvero male, in questo arido e sabbioso Duna Park fatto di sentimenti mal pescati. Come quando vorresti il peluche più grande, quello più morbido, ma te ne torni a casa con un pesciolino rosso che di lì a poco finirà a pancia all’aria nella tua boccia di squallido vetro che ha scambiato per mare aperto. Ora, di aperto, ci sono soltanto i miei occhi. Oggi sono pronto a guardare. Vedo me, mille me riflessi in uno specchio più nitido. Me e una mano nuova, da provare a stringere con la stessa delicatezza di un cardiochirurgo. Un intervento sperimentale, a cuori aperti. Entrambi aperti, entrambi infranti, entrambi da ricostruire. Ho chiuso con gli angeli. Ora una sirena mi fissa, e io sono finalmente disposto ad annegare nei suoi occhi, a nuotare con lei. Di giorno in giorno imparo a lasciarmi andare, e a vedere la sua coda come un pregio, le sue squame come una ricchezza. Una ricchezza vera, non di carta.

Dodici mesi di piccole e grandi rivoluzioni. Avevo ancora pochi gettoni avanzati dal 2016, ma quelli che mi rimanevano mi sono stati rubati. Ora sono pronto a farmeli restituire, anche a costo di spaccarmi le nocche contro un punching ball che sa di onerosa e onorevole rivalsa. Ho vagato per settimane in questo Duna Park senza guardie e con molti ladri, fino a che non mi sono incontrato. Mi sono regalato dei gettoni nuovi, raccolti sulla strada dei sogni incolti e delle inclinazioni tradite. Mi sono guardato senza aver bisogno di uno specchio, fino a trovare un nuovo sentiero. Con il dubbio che, in realtà, sia stato lui a trovare me. Sono finito in una nuova sala giochi. Alle leve, ai pulsanti, ai comandi – questa volta – c’ero io. Ho appreso i primi rudimenti della narrazione. Ho imparato a muovermi tra storie serie e serie che sono storie. Ho preso confidenza con un mondo tutto nuovo, ma che in fondo era già mio. Una volta uscito mi son sentito diverso. Ho cominciato a vedere il mondo a pixel, sorprendendomi, spaventandomi, con il sospetto di non poter più tornare indietro. Come un orologiaio del racconto, ho deciso di onorare mio nonno smontando e rimontando cose, scoprendo ingranaggi, con la prospettiva di un futuro fatto di storie svizzere. Io che sono sempre in ritardo, pure con sogni. Soprattutto con i sogni.

Dodici mesi di piccole e grandi rivoluzioni. Ho girato tra i chioschi, ho provato sapori diversi, fino a che non mi hanno detto che mi sarei potuto fermare. Lì, in un posto che sapesse di casa. Un posto che, d’ora in poi, chiamerò “casa”. Ho un chiosco tutto mio, e che ogni giorno che passa mi somiglia di più. Come un figlio da crescere tra le gioie e le fatiche, e la benevolenza e le pretese di nonni generosi ma talvolta esigenti. Oggi ho un chiosco tutto mio dove cucinare i miei hot dog, invitare passanti, riposare la notte. La mia vita è una carovana, e la certezza di avere una mia carrozza fa tutta la differenza del mondo. Amo il cuore di chi me l’ha concessa, odio la mia incapacità di capacitarmi da subito di quanto accaduto, di cosa avessi per le mani. Un chiosco, bello e spazioso. Tutto mio. Mio e per le mie paure, le mie speranze, le mie ambizioni da arredare.

Sono stati dodici mesi di piccole e grandi rivoluzioni. Esco dalla stanza degli specchi. Voglio ritrovarmi altrove: in quello che dico, in quello che faccio, in quello che sento. A giudicare dalle stelle, quello appena iniziato sarà un anno di risalita. Scarpinerò, sì, ma verso il cielo. Girovagherò lungo i viottoli di un un nuovo carrozzone itinerante – “2018”, dicono si chiami – ma senza scendere dalla giostra che si muove come me. Come me, sì, ma non con me, per questo dovrò ripensare i miei tempi, rivedere i miei modi. Le stelle sanno, le stelle non aspettano. Mostrerò a me stesso, ai passanti e a tutti viandanti del nuovo Duna Park che so stare ancora in piedi. Anche dopo le montagne russe, il saliscendi di emozioni e di possibilità, di sentimenti e di occasioni che l’ultimo anno ha voluto offrirmi. La gioia della salita, il terrore della discesa. Dal basso ho guardato le cose con sotterranea preoccupazione, dall’alto ho goduto di tutta un’altra prospettiva, ma non con meno timore. Sono montagne russe mendaci, perché travestite da ruota panoramica. Ti mostrano il cielo, ti espongono ai venti, ti fanno vedere tutto quello che c’è, ma intanto ti fanno strabuzzare gli occhi, strapazzare il cuore, frullare la mente da dentro un calderone che era già magmatico di suo.

Ora ringrazio il brucomela degli affetti, famiglia e amicizie che, quando hanno saputo e potuto, mi hanno permesso di placarmi mentre la giostra – vorticosa – non accennava a fermarsi. Ringrazio chi ha saputo parare le mie martellate, che ho sferrato per inerzia e per necessità, ma anche per provare a me stesso che ho ancora tutta la mia forza, mentre il mondo era impegnato a offrirmi poteri nuovi di cui sono ogni giorno più consapevole. Ringrazio chi ha saputo sopportare i postumi di un saliscendi frenetico che mi ha scompigliato capelli e anima, mentre oggi mi arrovello nel mio nuovo mantra esistenziale. Respira di più e meglio, abbi fiducia nel flusso, metti benzina nel serbatoio dei sogni e accenditi davvero. Tra vecchi e nuovi stimoli, tra cicatrici annose e inedite, mi sono diretto all’uscita con l’intenzione di avere più fegato, ma con meno calcoli. Sulla soglia ho ritrovato le storie vere, quelle che – forse – da domani ricomincerò a raccontare, ma senza più azzardarmi ad abbandonare le altre storie. Quelle mie, quelle che forse, nel loro essere fasulle, sono in realtà le più vere di tutte. La sala giochi mi ha insegnato a essere giocatore, non più personaggio. Alla fine della giostra ho trovato quella nuova mano da stringere. Ho cominciato ad accarezzare la sirena, perché se lo merita, e perché in fondo me lo merito anche io. Sulla soglia, poi, ho rincontrato anche il gatto che credevo quasi di aver perso. Lui, animale selvatico che assomiglia tanto al mio creare. Lui, felino aristocratico ma che sa sorprendermi quando e dove serve. Ora sono fuori da quell’amatissimo e fottutissimo Duna Park, in cui tutto cambia forma al primo colpo di vento, in cui la sabbia si muove frenetica e improvvisa per generare nuove possibilità. Saluto le montagne russe, quelle che non dormono mai e che non mi hanno fatto mai russare. Sono uscito stringendo mani, mani che voglio siano quelle giuste. Me ne sono andato con un affanno un po’ più tenue, un respiro più regolare, perché nelle mani e negli occhi ho squame lucenti, e un impeto nuovo di fare bene. E del bene. Ho cammino oltre la soglia, salutato il Duna Park. Ora vado oltre. In tasca un tintinnio. Ho ancora tutti i miei gettoni.

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Chi ama il Natale

Se la prendono tutti con le feste. Dicono che ti obblighino a indossare l’abito buono, a ostentare sorrisi senza fondamenta, a stringere mani non più amiche, a far finta che vada tutto bene. Dicono che ti inducano a recitare nella più squallida delle commedie, a portare delle maschere. Maschere. Proprio quelle che – a voler guardare oltre la nebbia – il Natale e bestialità simili ti costringono a levare. Le feste, a volte, ti mettono all’angolo, fino a farti tirar fuori un’identità che non hai. Ma questa è soltanto la superficie. La gente odia il Natale perché non lo sa capire. Lo considera un grande teatrino. Ipocrita, irreale, commerciale. Io non conosco nessuna verità. Io diffido di ogni presunta verità, soprattutto se assoluta. Ma di una cosa sono sicuro, sì: il Natale, la maschera, te la fa calare.

C’è chi finge di fronte a parenti e amici, chi schiva domande, chi elude risposte. Il fatto è che ognuno ha la sua percezione della festa, ed è quella la vera domanda. È quella la vera risposta. Puoi mentire ai tuoi cari, puoi ingannare familiari e conoscenti di vario grado, ma non potrai mai truffare te stesso. Fuori il teatro, dentro lo svelamento. Chi ama il Natale non è un ipocrita, né un buonista. Chi ama il Natale – a differenza degli altri – ha soltanto la consapevolezza di essere più o meno felice, e di saper cogliere il bello al di là della finzione. Chi ama il Natale lo sa che ogni 25 dicembre rischia di finire su un palco indesiderato, ma sa anche vedere le persone dietro i personaggi del presepe, l’essenziale al di là degli addobbi, le luci – quelle vere – oltre le luminarie artificiali. Chi ama il Natale non è vittima del consumismo. Chi ama il Natale può anche non fare regali: il suo regalo è il Natale stesso, il tempo condiviso, la maschera calata. Perché chi ama il Natale sa vedere quel che c’è da vedere, oltre l’ostentazione di un cinismo che è ormai status symbol. Chi ama il Natale non è un cretino senza spirito critico. Chi ama il Natale si gode la famiglia che c’è e onora quella che non c’è più. Chi ama il Natale ti sorride in faccia oltre la tua patetica finzione. Chi ama il Natale ti incita a scoprire perché sei arrivato a detestare le festività. Chi ama il Natale sa che il Natale è un’occasione. Ché se sei felice va bene così, ma se le luci del centro t’infastidiscono, se innaffi il tuo l’albero soltanto con le lacrime, se sei più cadente tu di quella famosa stella, allora il tuo problema non è il Natale. Il problema sono gli occhi attraverso cui hai osservato gli ultimi trecentosessantaquattro giorni, il modo in cui li hai vissuti. Io, oggi, assolvo il Natale. Lo scagiono. Lo sollevo da ogni responsabilità sul nostro stato d’animo. Il Natale non è una luce di scena. Il Natale è un faro puntato su quello che hai dentro. Il Natale è lo specchio di ciò che sei diventato durante il resto dell’anno. In attesa di quello nuovo. Un nuovo anno. Un nuovo Natale. Un nuovo inizio. I buoni propositi cominciano qui.

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Ho imparato

Quella di ieri è stata una giornata poco edificante, ma ho imparato tante cose. Ho imparato che si perde anche quando si vince. Che l’orgoglio non è una scusa per non chiedere scusa. Che i vicini sono lontani, se non conosci le loro storie. Che ogni casa è un romanzo, e che la tragedia è una pagina senza segnalibro. Che perdiamo troppo tempo, quando il tempo è probabilmente l’unica cosa che non dovremmo perdere. Che cercare schemi mentre tutto è astratto ci protegge ma, allo stesso tempo, ci paralizza. Che forse il tè è più buono senza zenzero. Che i gatti sono spiriti della notte che possono anche decidere di non farsi trovare. Che i mostri sono il colore che ci stampiamo sugli occhi. Che la carta mi rende bulimico. Che mi (dis)perdo in un bicchier d’acqua. Che mi spengo troppo facilmente. Che la rabbia è una costante da rendere variabile. Che se vivi nel nero ti devi procurare una torcia. Che c’è un fottuto bisogno di sorriderci di più, e che una lacrima può curarti quasi quanto un sorriso.

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Finale di stagione

Guardo il bar, e mi viene quasi da salutarlo. Mi guardo intorno, osservo le pareti, le decorazioni che sanno di antico. Respiro. Osservo ancora, mentre mi avvio verso le scale che mi porteranno all’uscita. So che questi posti non li rivedrò più, se non durante un'”operazione nostalgia” attentamente pianificata. So, anche, che in questo luogo lascerò una parte di me, perché si è preso una parte di me. E io mi porterò a casa, a mo’ di souvenir, un pezzo di questo posto. Non soltanto la carta di un cioccolatino al caffè, il famoso “chicchetto” offerto a chi, dopo pranzo, si prende un espresso al bar della mensa. Mi porterò a casa un po’ di quest’aria, un po’ di queste decorazioni che sanno di antico. Un po’ di emozioni. Come sempre.

Sono le emozioni a fare la differenza. L’esperienza intellettuale si deposita sul fondo della mente, poi sta a te, di lì in avanti, essere bravo a rovistarvi dentro, a rimettere in movimento quelle nozioni, quel materiale sinaptico, concettuale ma vivido. Le idee cambiano la storia, ma a fare la differenza, sì, sono le emozioni. Sempre. Te le porti dentro, depositate su un altro fondo. Quello dell’anima.

Lascio Ponte Felcino con un groviglio di sensazioni che fatico a mettere in ordine. Qui ho piantato semi potenti, qui ho raccolto frutti dai sapori più diversi. Ricorderò questi luoghi per quel che mi hanno permesso di imparare, e non mi riferisco soltanto all’arte della sceneggiatura. Quelle sono nozioni. Io parlo di un altro fondo. Quello – forse – che stavo per toccare.

Domattina lascerò questa stanza. Ora sono qui, a scrivere le memorie dei questi ultimi “cinque mesi meno uno”. Come se fosse passata una vita. Come se qui ci fosse passata la Vita. In effetti c’è passata. In questa precisa stanza riecheggia il rumore greve delle mie emozioni. Sono qui che rimbalzano sulle pareti. Se i sentimenti fossero fantasmi, il prossimo inquilino della singola dell’appartamento 6 vedrebbe lo spettro di ciò che mi porto dentro. Nuove consapevolezze, nuove vulnerabilità. Domani mi raccoglierò facendo attenzione a non rompermi. Mi caricherò a bordo della mia Punto bianca, quella su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo. “Non superare i 70”, dicevano. “Non puoi sempre fare su e giù, con quelle salite”. La mia Punto bianca è stoica, chi la guida pure. Domani ce ne torneremo a casa insieme. Direzione mare, quello degli orizzonti infiniti. Finalmente. Cambierà il panorama, in attesa di un altro scatto repentino. Verso la grande città. Verso il futuro che sarebbe bello se fosse già un presente. Verso un altro me.

Mentre camminavo fuori dal bar della mensa sono stato assalito da un groviglio di emozioni. Sono un nostalgico, ho il vizio della celebrazione. Detesto gli addii. Non piango, ma li detesto lo stesso. Non lascerò i miei colleghi. Roma sarà la nuova casa per tutti, almeno per un po’. Ma lascerò i posti delle emozioni esagerate, quelli in cui – tra tutto il resto – so di aver amato e di esser stato corrisposto, prima che il destino mi rivelasse che era soltanto un grande scherzo. Un fottutissimo scherzo. Ho lo sguardo già in avanti, ma le emozioni – dicevo -, quelle si sedimentano nell’anima. E l’anima, si sa, non dimentica. L’anima è la vera casa di quel che ci portiamo dentro, di quel che ci portiamo dietro. L’anima è il deposito delle esperienze, di quelle vissute e di quelle tronche. E io ho ancora qualche ora per assaporare l’anima di questo posto, un’oasi in mezzo al nulla. Oggi pomeriggio scriverò, perché è quel che so fare meglio. Scriverò per mettere a punto gli episodi di un nostro progetto di serie. Lo farò tra le fontane, i limoni, gli insetti oversize. Scriverò fiction, ma non ci sarà niente di più vero: le storie prendono sempre spunto da quel che viviamo. Le storie s’interrompono, ma poi ripartono. Assumono altre forme. Questo è soltanto un finale di stagione, e non c’è un vero “cliff”. Il protagonista, però, ha compiuto il suo arco. Il protagonista sta per fare le valigie, pronto per la sua “season 2”.

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Prisoner 709

Ci sono le autobiografie da top ten e quelle pubblicate postume. Caparezza non ha bisogno delle prime, né ne avrà delle seconde. Lui ha scritto e inciso Prisoner 709, e oggi il re del non-rap italiano è più nudo che mai. Non una base che non sia d’impatto. Ogni pezzo ha un’impronta musicale articolata ed energica, che rievoca certe sonorità da rapper americano, da narratore della strada d’oltreoceano. Ma questa volta l’unica strada a essere raccontata è quella che porta al rapper stesso. Dal Troppo politico di una sua vecchia canzone al troppo poco. Forse. D’altronde l’ha detto lui stesso: “Faccio politica pure quando respiro”. Oggi, ad ogni modo, suona più cupo e introspettivo. Il nuovo Caparezza è talmente intimo da dedicare una canzone al suo stesso acufene, così autoreferenziale da parlare con il suo io più giovane, tra tracce che contengono tracce del suo passato, così come di un futuro che preoccupa e che come sempre incombe. Ma al centro c’è soprattutto il presente vissuto dal non-rapper di Molfetta. Al racconto rimato, acuto e puntuale del mondo esteriore, questa volta ha preferito il racconto di sé, del mondo che si porta dentro, complesso come le sue girandole verbali, impeccabili come d’abitudine.

Prisoner 709 è un finto concept album, perché l’unica storia che contiene è quella di chi quel concept l’ha concepito cucendoselo addosso. Niente intermezzi narrativi, soltanto il racconto di una personalità tormentata – dipinta con tinte meno accese del solito -, della sua consueta mente vulcanica e di un orecchio ronzante di cui fino a ora non si era avuto notizia. Il nuovo disco di Caparezza non è stato scritto da Caparezza, ma dall’uomo dietro la maschera di Caparezza. Alla penna Michele Salvemini, al “mic” la voce in playback – si fa per dire – del solito mattatore coi boccoli. A chi ascolta resta il consueto bisogno di farlo con il testo sotto gli occhi, anche soltanto per provare a rincorrere le rime tortuose dell’ultima fatica di un artista che la fatica, evidentemente, la percepisce davvero. Prisoner 709 è un disco maturo e dalla qualità elevatissima, ma è pur sempre il disco che non ti aspetti, meno divertente e divertito di altri, però più onesto nel parlarci dell’uomo che sta dietro l’artista. Lo si intuiva dalla serietà imperante già in copertina, così come dai pochi giochi di parole contenuti nella tracklist. Nell’attesa ci si è chiesti cos’avrebbe deriso con arguzia nei suoi nuovi pezzi, ma questa volta c’è da cogliere soprattutto l’immagine riflessa dell’autore, del ragazzone quasi 44enne dalla riccia chioma e che si celo dietro uno pseudonimo diventato ingombrante. A un primo ascolto resta poco della solita goliardia, tracce che nascondono – male – una certa inquietudine sottopelle, tra una rima non sempre baciata e nuovi labirinti di parole che trasudano, nel sarcasmo, l’affanno provocato da un successo divenuto gabbia. Il prigioniero Salvemini è voluto evadere così. Speriamo non per sempre.

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Casa 35 (Atto III)

Qui puoi leggere come tutto è cominciato.

Qui puoi leggere com’è proseguito.

Una casa non è mai una questione di mura. Una casa non è mai soltanto un tetto con qualcosa sotto. La casa sei tu che ci stai dentro, anche se non lo sai, anche se non te ne accorgi. Non gli occhi, ma la casa: è lei il vero specchio dell’anima. Ma tu non te ne accorgi, non lo sai. Fino a che – alla fine, a cose fatte – fai i tuoi conti e ti rivedi tra quelle mura. Scopri te stesso sotto quel tetto, e realizzi che in tutto questo non c’è niente di casuale.

Quando sono entrato nella mia nuova casa non c’era quasi nulla. Quando sono entrato nella mia nuova casa c’eravamo soltanto io e una spolverata di fottutissimo nulla. Pochi mobili, tanto spazio, troppo vuoto. Quella casa ero io. Me ne accorgo soltanto ora, ora che l’ho lasciata di nuovo, perché sono dovuto ripartire lontano dai miei lidi, verso i miei mostri futuri. Verso i miei scopi. Ma tornerò, tornerò perché è casa mia. Tornerò perché sono riconoscente a chi so io, e tornerò perché non si fugge mai da se stessi. La casa era vuota, sì, proprio come me. Le mancava qualche pezzo, proprio come a me. L’eccesso di spazio era soltanto la prova tangibile di una voragine piazzata lì, nel petto. Il mio. Era il vuoto che mi stavo portando dentro. Quando sono entrato mi avevano appena privato di qualcosa di viscerale. Mi avevano tolto cose che non andrebbero buttate via. I sentimenti, tipo. C’erano cose buone, qui dentro, anche se sporcate dall’ego, dai capricci della mente, da distanze che non erano più soltanto geografiche.

Quando sono entrato in quella casa ho dovuto fare i conti con me stesso. Una volta di più, ma mai una volta di troppo. Quando sono entrato non c’era quasi nulla, mentre nell’arco di un mese, tra una portafinestra e l’altra hanno trovato spazio tante nuove cose pronte a riempire quei maledetti vuoti. I comodini, un lampadario, due abat-jour, il tanto sudato tavolo della cucina. E in bagno, ora, c’è pure un’ingombrante colonna portaoggetti. Non sono semplici pezzi di una casa, ma nuovi frammenti di me che si sono opposti al nulla, mentre io, a piccoli e timidi passi, ho cominciato a dimenticare quel che avevo da dimenticare. Una ricchezza che non è più mia, e che forse non lo è mai stata. Forse non era neppure la ricchezza che ho creduto che fosse, tantomeno posso dire che sia stata la mia. Perché gli angeli, si sa, non sono mai di nessuno. Non li possiedi, al più sono in prestito dal cielo, e non sai mai quando tocchi a qualcun altro accarezzarne le ali. Ho lasciato andare. Mi sono disilluso fin dove ho potuto, sradicando certezze appena piantate, ma con radici già molto profonde.

Ora la mia casa non è più davvero vuota. Passo dopo passo ho cominciato a riempirla di tante piccole e belle cose. Perché quella casa sono io, e ho intenzione di arredarmi come merito. Quella casa siamo io e la mia strana estate, io che son sempre alle prese con una fronda di disillusioni da eludere. Solo, ma per finta, tra arzigogoli mentali che sanno tanto di labirinto. La polvere si accumula, i copri-water già scricchiolano: c’è vita in quella casa che comincia a sapere di casa, mentre io sono tornato al letto dei sogni infranti, a una manciata di chilometri da una stazione dei treni che mi accorgo di odiare. Questo posto mi ha prosciugato. Questo posto non può più essere casa mia. E’ stata soltanto la foresteria degli sguardi fumanti, figli di un calore vero, interno, profondo, ma che si sono dissolti nell’aria al primo colpo di vento. Qui sono lontano dai miei lidi, e ho di nuovo lo sguardo verso i miei mostri futuri, i miei scopi. Ma mi sto arredando. Mi sto facendo bello e abitabile per un futuro senza vuoti forzati. Per diventare anche io una casa piena di portefinestre. Un posto da cui nessun angelo vorrà più volare via.

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