L’ho temuto. Se n’è sempre stato lì, tipo spauracchio. Ho sempre temuto e immaginato questo momento. Eri la mia nonna eterna, quella che si rialzava sempre, puntuale, dopo ogni apparente k.o. Eppure, io, questo momento me lo sono sempre immaginato. Ora eccomi qui, con una tastiera e i ricordi da mettere in sequenza prima che il tempo si faccia vento e me li soffi via, come sempre inesorabile. Ora sono qui. Io che non piango, io che sono il più becero dei bugiardi. Perché la pioggia lì fuori cade al tempo della mia. Mentre tu sorridi anche da di là.
Tornerò a sorridere anch’io, ma per ora è pioggia. Tornerò a sorridere. Te lo prometto, nonna. Sarà il mio modo di portarti dentro, ora che qui fuori non ci sei più. Tornerò a sorridere, ed è una promessa vera. Perché è quello che mi hai insegnato anche senza insegnarmelo. Tu non davi lezioni. Davi esempi. Ho imparato più cose osservandoti che in anni e anni di studi. Perché un cuore grande è il più grande dei maestri. E, quando si ferma, non si ferma mai davvero. Continua a battere in altri petti. Per nuovi sorrisi, contro una nuova pioggia.
Sono qui, con il solito flusso che fatica sempre più spesso ad arrivare, mentre inscatolo i momenti per non smarrirli tra il disordine di pensieri che sembrano non avere inizio né fine. Sono qui che rinuncio agli automatismi della mente, e appena ci riesco è di nuovo pioggia. Ma io non piango. Io sono il più becero dei bugiardi. Sono qui che cerco di emularti. Sono qui che mi ripeto che sono tuo nipote, ed è come se non fossi autorizzato a perdere liquidi dagli occhi. Perché tu sorridevi, sorridevi sempre. Lo sanno tutti. E mi sento come se io, adesso, non potessi piangere. All’inizio mi sono sentito come dentro un film. All’improvviso, però, qualcosa è cambiato. In quella camera mortuaria l’aria condizionata era la stessa, ma il cinema ormai era chiuso. E fa ancora un freddo irreale. Le proiezioni sono finite da un po’, in questo raggelante clima da obitorio. La pellicola finisce nel momento in cui realizzi che il film non è mai iniziato. È come quando si frantuma la quarta parete. I personaggi ti parlano, e tu cominci a credere che non ci sia niente di finto. Finalmente la realtà morde. La bolla di finzione è scoppiata. E io con lei. In lacrime.
Lacrimo a tratti, come singhiozzi rapidi e incontenibili. Mi hanno privato di uno grossa parte di me, ma sono come anestetizzato da un presente che corre e che non si fa afferrare. La ferita è fresca. Senza strappi, ma c’è. Nessuno poteva immaginare. Nessuno, tranne te, che in quell’ultima maledetta domenica hai detto che sarebbe stato il tuo ultimo giorno. Il corpo lo sa. Lo sa prima di tutti. A noi non resta che questo smarrimento, la consapevolezza che niente sarà più come prima. Ma non puoi vedere tutta la voragine, finché ci sei dentro. Ti accorgi sempre tardi dei sorrisi che mancano. Di quelli più belli, che sono anche quelli più dolorosi, quando li perdi. Funziona così con le belle donne. Funziona così con le belle nonne.
Dirti addio è stato un pugno allo stomaco, un cazzotto in faccia. Ma non uno di quelli finti che piacevano a te. Eri pacifica, e a dirlo erano i tuoi sorrisi. Non importa se ora si è fermato: tu avevi il cuore d’oro, e lo sanno tutti. Eppure ti lasciavi sedurre da quei cazzotti sparati a salve, senza cattiveria. Avevi gli occhi da angelo, ma ti sganasciavi con Bud Spencer. Ti divertivi a guardare la boxe e le moto che cadevano. Chiedevi: “Cu fa, Valentino?”, ma ho il sospetto che fantasticassi sui potenziali capitomboli di quei centauri, proprio come durante il Tour de France, quando domandavi: “Ma le ròt en fat del légn?!”. E poi dicevi: “En tutti atachèti… Se se tocne fan un macèl”.
Ricordi. Ricordi. Montagne di ricordi. Sono cresciuto anche con te, che sei sempre stata la mia mamma in seconda. Lo sei stata per tanti, ma tu nemmeno lo sai. Generi, nipoti, amici dei nipoti. Sei stata la matriarca silenziosa di una famiglia che va oltre le parentele più dirette. Tu non hai idea di quante persone ti apprezzassero. Ho contaminato internet con le tue perle, le tue espressioni improbabili, le tue parole inventate ma mai fuori tema. “Era diventata un po’ anche la nostra nonna”, mi ha scritto qualcuno in questi giorni di buio inatteso. “Tua nonna è immortale, io non la dimenticherò. Resta un mito di ironia e cuore”, ha detto qualcun altro che non ti ha mai visto se non in foto, ma che di te aveva già capito tutto. Ne ha fatta di strada, la “mulinàra”. Anche se con una gamba un po’ più infelice dell’altra, anche con il girello e con il tremolìo. Sorrisi e schiettezza superano i limiti di un corpo a orologeria. Ed entrano nel cuore di chi sa capire.
L’ultima foto che ho di te è quella di una specie di pranzo hippie consumato sul tuo letto, con intorno diverse persone che ti vogliono bene. Tu che mangiavi da sola la tua insalata di riso, “perché el ris fat acsì me piec”. Ma poi? Cosa resta, ora, in questo spartiacque così irreversibile? Cosa rimane dei nostri riti della domenica? E delle tue mele a metà? Cosa resta delle rose che non ho finito di regalarti? E delle mezzore che rubavo al mio eterno dovere per venirti a trovare, consapevole che un giorno mi sarei pentito di ogni minuto non speso insieme? A pensarci bene di cose ne restano tante, oltre i letti e le poltrone vuote dentro una casa senza più televisori con il volume alle stelle. Restano i ricordi. Resta il mio appetito irrefrenabile così simile al tuo, e l’immagine di me che cercavo di distrarti dai pensieri brutti chiedendoti cos’avessi mangiato a pranzo. Restano i tuoi sguardi luminosi impressi sulla retina, nella mente, in mille e più fotografie. Restano le tue parole ficcanti come frecce. Colorite, colorate, imprevedibili. Restano i miei cantanti, quelli che parlano invece che cantare. Resta il sospetto che tu, in realtà, abbia scelto consapevolmente quando andartene. Hai aspettato di rivedere tutti i tuoi nipoti. Tutti. Hai aspettato che quelli più lontani riprendessero i loro aerei per venirti ad abbracciare. Hai aspettato persino quel mio amico che vive in Giappone ma che tu hai visto crescere, e che un tempo si era fatto ventisette ore di volo. E tu: “Du vai? A l’inférne?!”. Hai stretto di nuovo tutti, come fossimo i bulloni del tuo charter diretto in paradiso. Poi ti sei congedata, in un sonno così profondo da farsi eterno, non a caso nel giorno numero 23.
E c’è chi non ha fatto in tempo a conoscerti. La tua magia più grande, forse, è proprio questa. C’è qualcuno che non ti ha mai visto, eppure ti adora già da un po’. È il miracolo della mulinàra, della Paradisi. Mai un cognome era stato così profetico. Poteva, una faccia d’angelo come la tua, non chiamarsi così? Tu che hai fatto ridere e sorridere gente sparsa in tutto il mondo. Era questa la tua forza. Ed è questa, ora, la tua eredità. Se solo si potesse, brevetterei già domattina la tua voglia di vivere, al dì là dei pessimismi ostentati e della stanchezza di una vita accomodata su una poltrona arancione. Ma tu sei sempre stata tu, quella che diceva di non volere il loculo con vista mare, per carità, “perché dop, malì, fa fredd”. Sei quella delle assurdità autorizzate, della bontà sconfinata, dei sorrisi regalati senza chiedere niente in cambio. Sorrisi che oggi, con questa pioggia dentro, si fanno ombrelli.
Ma adesso basta lacrime. Gli ombrelli non servono più. Penso al tuo sguardo e alla tua spontaneità. Penso alla gioia che trasmettevi come una profetessa non autorizzata. Ed è anche questo il tuo retaggio, la tua pesante eredità, che si fa leggera al pensiero di te. Non c’è niente per cui piangere. Saluta nonno, e fate i bravi. Noi restiamo qui, finché possiamo, a spargere sorrisi in giro con sopra il tuo marchio. Per portare un pezzo di Paradisi in più in questa Terra che ha sempre più bisogno di cuori come il tuo.