Guardiani della Galassia

Guardiani della Galassia - poster

Il segreto è una vecchia musicassetta. Nel walk-man ci sono i brani di una volta, suonati a loop per non lasciarli andare. Per non lasciarsi andare. E per non lasciare andare qualcuno che proprio non vogliamo che se ne vada. Lì c’è il passato che attraversa il presente per creare il futuro. Un po’ come i Guardiani della Galassia, i paladini dell’universo griffati Marvel che con la loro colonna sonora bizzarra e un po’ retrò (anni ’70 e ’80) hanno dichiarato guerra agli aspiranti dominatori intergalattici. Strizzando l’occhio a Star Wars e, allo stesso tempo, (r)innovando il genere dei cinecomics.

Già. Non è la solita musica quella che passa il convento dei Marvel Studios, che questa volta il miracolo l’hanno fatto davvero. Perché creare dei buoni personaggi, inserirli in un canovaccio efficace e condire il tutto con musiche dall’impronta epica è ormai un compitino (quasi) di routine. Ma farlo così bene è una sorta di prodigio. Ed è difficile, oramai, decretare quale sia il miglior super-film ispirato agli eroi della Casa delle Idee, tanti ne hanno già sfornati. Ma una cosa è certa: oltre a fare un uso inedito, prepotente, efficace e fortemente simbolico della musica, Guardiani della Galassia arriva dove nessuna produzione Marvel era mai arrivata: far ridere senza per questo rendersi ridicola. Spingere sull’acceleratore della comicità senza perdere il controllo del mezzo. Fare della risata un valore aggiunto, e non un fardello dai risultati apocalittici. E ci voleva un novellino come James Gunn, che a suo modo s’intende sia di eroi in calzamaglia sia di toni scanzonati (suoi il film Super e un episodio dell’apprezzato Comic Movie), per compiere l’impresa. Per imprimere la leggerezza sulla pellicola come nessun regista Marvel (Studios e non) era mai riuscito a fare. Grazie a una sceneggiatura che spiazza lo spettatore, perché obbliga lo sfacciato Star-Lord, la seducente Gamora, il cinico Rocket, il tenero Groot (difficile credere che dietro ci sia quel duro e puro di Vin Diesel) e l’avventato Drax a compiere gesti inattesi, a dare forma ai dialoghi che meno ti aspetti. Guadagnandoci in profondità e umanità. Loro che ci fanno ridere e commuovere. Che sono così lontani, eppure così vicini. I non-eroi del pianeta accanto che le suonano ai cattivi. E fanno tutta un’altra musica. Con o senza walk-man.

Nina

nina
Un bambino come coscienza e una normalità da schivare. Una crisi esistenziale, silenziosa come la periferia romana a Ferragosto. Una solitudine esteriore, ma soprattutto interiore. L’incapacità di sentire, l’impossibilità di sentirsi. Nina è un racconto visivo di formazione. Diane Fleri (Come te nessuno mai, Mio fratello è figlio unico) offre a questa produzione minore (come appetibilità commerciale, non di certo come anima) le sue doti innate in comodato d’uso. Tra le altre, una bellezza semplice e d’impatto, e una erre moscia che male si sposa con il nome del cane che porta quasi sempre al guinzaglio. Quattro zampe, una coda e una presunta depressione: la dogsitter improvvisata fa di Omero un alibi per mettere il naso fuori di casa. Per incontrare il nulla cosmico dell’Eur, arso dalla calura e spopolato dalle ferie.

Ma la bellezza è sempre dietro l’angolo. Il film di Elisa Fuksas, al suo esordio con un lungometraggio, è proprio come il quartiere romano. Freddo, nonostante la colonnina di mercurio, ma soltanto in apparenza. Vuoto, ma in realtà pieno. La regista è bravissima a raccontare questa pienezza attraverso la furba illusione del niente. Figlia di Massimiliano, celebre architetto, e laureata a sua volta in architettura, sfrutta il suo occhio allenato per mettere a fuoco la bellezza delle strutture, dei colonnati, dei marciapiedi, dei pochi bar aperti nei paraggi. Dove la vita sembra essere andata in vacanza. Quella di Nina, invece, è proprio da qui che potrebbe ripartire.

Non servono drammi o traumi indelebili per conferire a un personaggio la dovuta profondità. E’ come se la crisi dell’esistere fosse già in natura, come se l’equilibrio della persona fosse condannato a spezzarsi semplicemente perché è così che devono andare le cose. La vita di Nina è piena di tutto, ma in realtà è un mare senz’acqua. Fa compagnia a cani e porcellini d’India. Insegna canto. Studia cinese con un eccentrico maestro (il teatrale Ernesto Mahieux). Dribbla i potenziali amori. Corre sotto il sole cocente per smaltire le torte da sei che divora la notte. Anche il sonno, per i cuori solitari, è una specie di optional.

E’ in questo desolante scenario che incontra le poche persone (e i pochi animali) che no, non la porteranno a ritrovare se stessa, ma le faranno capire da che lato si guarda uno specchio. Tra queste anche Ettore, un bambino che sembra vivere da solo nel niente, che si insinua quando e come vuole nell’appartamento in cui alloggia la ragazza. Come un piccolo fantasma fatto di carne e di ossa, quelle di Luigi Catani, prodigio sfrontato della recitazione che non potremo che rivedere presto. Lui la farà sedere sulla poltrona di uno studio dentistico svuotato dalle vacanze, come fosse il lettino di uno psicologo. Lei la paziente, lui il dottore. Ma Nina è una figura ancora più eterea di questo enigmatico bambino. Non la proiezione olografica dell’Italia precaria, ma quella di un’intimità raffreddata dal tempo (o da chi per lui) e che ora fatica a cedere ai sensi e ai sentimenti.

Per raccontare la fuga di Nina dalla normalità, dalla minaccia di un futuro prossimo omologato che la vorrebbe con un lavoro vero, una casa e un fidanzato con cui riempire le giornate, alla Fuksas è bastato un cast essenziale, un uso moderato ma poetico della parola, un’espressività visiva e registica che parla da sé, una cura visiva che sfocia in una lucida e provvidenziale ossessione. E una trama minimal, ma densa di spirito.

Looper

Un giro su se stesso, poi il nulla. E’ il destino di un certo cinema. Cocciuto, che insiste con i suoi vizi e vizietti. E’ la sorte di una certa azione a stelle e strisce. Che quando può si rinnova nei contenuti, ma non abbastanza nella forma. Che spreme nuovi incipit, anche vincenti, ma poi li getta come se dall’inizio non fossero stati nient’altro che buccia. Loopers è potente nell’idea ma latente nello sviluppo. Troppi i passaggi non spiegati, troppi i sospetti di una sceneggiatura bucata. La fantascienza di Rian Johnson si sdoppia, e questo non aiuta. Il suo film si muove su più binari. Una delle due stazioni riesce pure a raggiungerla, portando a compimento una delle sue trame. Ma lungo il tragitto si perde più di qualche pezzo.

I primi minuti sono di per sé la prova di uno script che non vuole osare. Spudoratamente didascalico, uccide sul nascere il gusto di scoprire i lati più seducenti dell’intreccio. L’idea di fondo si svela subito, come una donna che si spoglia senza prima saperti accarezzare. Poi i due binari. I viaggi nel tempo da un lato, la telecinesi diffusa dall’altro. Uno strano gioco della morte unisce le vittime del futuro ai carnefici del presente. Poi capita che il killer di oggi si ritrovi a dover uccidere il se stesso di domani. Ed è come un terremoto. Intanto si scopre che il nostro avvenire sarà segnato da una sorta di inspiegata mutazione, e che di conseguenza saremo tutti capaci di muovere le cose con il pensiero. Chi più. Chi meno. Chi troppo. Ma l’impronta simil X-Men mal si amalgama con la trama di base. Fondata sulla fragilità di certi valori, sullo scricchiolio delle umane intenzioni, sulla relatività delle nostre scelte, sull’eterna lotta contro se stessi. Sul piano della filosofia Looper ha molto da dire. Il problema è che potrebbe dirlo meglio.

Nel mezzo ci sono Bruce Willis (che di incastri temporali se ne intende già dai tempi de L’esercito delle 12 scimmie) e Joseph Gordon-Levitt, alter ego l’uno dell’altro a seconda dell’epoca. Parenti, si fa per dire. Ma la base genetica dev’essere davvero la stessa, accomunati come sono dall’essere entrambi campioni di inespressività. La loro prova ben si sposa con un action movie che avrebbe richiesto qualche sforzo in più. Adrenalina e ritmo non mancano. La macchina della tensione funziona a dovere. E’ quella del racconto che s’inceppa sui troppi perché. Sui risvolti narrativi previdibili, telefonati. Le perplessità sono tante, troppe. E girano su ste stesse. Come in un loop.

The Amazing Spider-Man

A morte il banale e via a gonfie tele. Quasi. Il ragno torna sul grande schermo, ed è tutto nuovo. La faccia, il costume, l’approccio. Più teenager, ma paradossalmente più maturo. Al contrario di Tobey Maguire, Andrew Garfield ha più di un’espressione facciale nel suo repertorio, ed è già un passo avanti. Non essere più espressivi con la maschera piuttosto che senza è di per sé un buon inizio. L’Oscar è lontano, ma siamo altrettanto distanti dalla farsa dell’ultima volta in cui l’aracnide è finito su pellicola per mano di Sam Raimi. Spaccavetri per professione, lo Spider-Man di Marc Webb è fresco e convincente. Alla Marvel si è capito che la sceneggiatura è la vera spina dorsale di un film, e che ci sono gag e gag. Che certe cose fanno ridere mentre altre invece no. E soprattutto che far ridere è tutt’altro che un obbligo.

Le sbavature di certo non mancano. A tratti si accelera per accorciare i tempi in un film di per sé lungo, un paradosso che impedisce di calibrare il ritmo laddove le emozioni richiederebbero un colpo di freno. Esattamente come nei primi due capitoli della vecchia trilogia, anche qui c’è un “cattivo” a tre dimensioni, profondo anche senza i proverbiali occhialini. Non siamo ai livelli di Willem Dafoe/Green Goblin o di Alfred Molina/Dottor Octopus, ma Rhys Ifans nei panni di Curt Connors sa il fatto suo. Il problema è l’alter ego, è quando l’uomo diventa rettile. Da un punto di vista estetico, Lizard appare troppo umanizzato e troppo poco “extreme makeover”. A volte i film-fumetto hanno il terrore di riscoprirsi dei fumetti-film, e allora ci vanno con i piedi di piombo. Anche troppo.

La trama mescola un po’ le carte, ma senza mai tradire davvero l’originale. Si strizza l’occhio al nuovo (chiare alcune similitudini con la serie Ultimate Spider-Man, l’incarnazione più moderna del personaggio formato comics) e si omaggia il vecchio (il ring, la presa al volo di Gwen Stacy che fa tremare per il futuro). Nel mezzo la scoperta dei poteri, che fa da ariete alle gag più forzate, ma allo stesso tempo ha lo spessore ideale per un momento così inevitabilmente topico. Tanti i dettagli, e pure apprezzabili, ma far muovere da subito Peter Parker come se sapesse già combattere non è per niente credibile. A meno che a morderlo non sia stato un ragno-ninja geneticamente modificato.

Il cuore, però, è grande. La genesi dell’eroe parte dalla famiglia, dalla sua sindrome da abbandono forzato dagli eventi. In questa nuova versione niente viene lasciato al caso, e si prospettano sottotrame che s’intessono dal passato per poi farsi futuro. Il progetto del reboot ragnesco è ambizioso e brillante, spettacolare e non banale. The Amazing Spider-Man non è il meglio del suo genere, ma è di certo un bel balzo verso un grattacielo più alto. Un buon modo per festeggiare i primi cinquant’anni di avventure a fumetti.

Dark Shadows

Belli con l’anima, nonostante siano mostri. Cocciante a parte, anche i vampiri sanno amare. E non è Twilight. Le streghe invece ci provano, ma avendo venduto tutto il vendibile al demonio fanno un po’ più fatica. I fantasmi? Esistono e indicano la via, mentre i licantropi digrignano i denti quando meno te lo aspetti. Tim Burton sfoglia l’almanacco delle creature da incubo e lo macchia con salsa humour. Rischiando grosso, molto grosso.

Ispirata all’omonima serie tv degli anni ’60 e ’70, Dark Shadows è una goth-comedy sovrannaturale con derive da sit-com. La banalità è sempre dietro l’angolo, ma ha il buon senso di rimanerci. I dialoghi sono brillanti, le musiche d’impatto, e meno male che non ci si prende mai troppo sul serio.

L’amore può essere puro, sincero, ma può anche assumere le sembianze di un’ossessione malsana spacciata per sentimento. In ogni caso è questo il cuore pulsante di una storia infarcita di personaggi che forse il cuore non l’hanno nemmeno più. Oppure non lo sanno usare. Angelique è innamorata di Barnabas, o così dice. Lui comunque non ricambia, e così lei gli uccide genitori e fidanzata, lo trasforma in vampiro e poi lo fa sotterrare. Vivo. Dopo due secoli il suo ritorno tra i mortali, riaccendendo le antiche rivalità e certi ardori fini a se stessi.

Burton fa il commerciale, come sottolineano le insegne e i grandi marchi in bella vista nelle riprese d’ambiente. Nonostante questo rimane fedele alle sue atmosfere. Gioca carte a lui familiari e punta sui soliti cavalli di razza, come il purosangue Johnny Depp. La sua corsa è densa di un’ironia che riesce a non guastare la festa. E’ il 1972, e il redivivo vampiro familiarizza con i figli dei fiori, eterni fumati e poi bevuti d’un sorso come si fa con il sangue da discount. Danny Elfman scandisce i tempi e non sbaglia mai una nota, mentre alcune parti della colonna sonora vengono direttamente da strumenti musicali, televisori vintage e live di Alice Cooper (quello vero).

Sullo sfondo il cliché del difficile adattamento da parte di un personaggio nato e cresciuto in un’altra epoca, ma che la sorte ha deciso di far tornare d’attualità a distanza di tanti, troppi anni. Barnabas come Capitan America, ma molto meno eroico. Fuori il Vietnam soffre il fuoco a stelle e strisce, e intanto il succhiasangue latin lover cerca una degna soluzione per dormire nella sua ritrovata dimora. Una tenda, uno scatolone, un armadio, infine una bara. Quella del non-morto è pur sempre una nuova vita. E va vissuta con tutti i comfort del caso.

To Rome with Love

Fate l’amore senza il sapore. L’ultimo Woody Allen è un giano bifronte. Un film insipido da un lato, un omaggio a un certo nostro cinema dall’altro. Poveri noi. To Rome with love è un cinepanettone al netto della volgarità, una commedia all’italiana anche con italiani (tra cui Roberto Benigni, Antonio Albanese e Isabella Ferrari) ma fatta da un non italiano. Una storia di adulteri e di contro-adulteri, di corna vissute o taciute. E di una fama tentata, capitata o malcapitata.

E’ la sagra del possibile, dei piccoli grandi paradossi di una società fatta di uomini e di donne che non sono mai soddisfatti. Che hanno l’ansia di diventare ancor prima di essere. In tutto questo Roma fa da propulsore, forte di un motore che non funziona secondo le logiche del tempo. Perché si sa, lei è eterna. Nella capitale tutto si muove a una velocità superiore. Non è questione di caos, di meccanismi tipici delle grandi metropoli. E’ che a Roma l’energia scorre a un ritmo più sostenuto. E ti fa fare, ti fa provare, ti fa cadere nelle trappole più assurde soltanto perché è lei. Roma. La città che fa amare e che si fa amare.

To Rome with love è forse un piccolo neo nella cinematografia di Allen, ma come sempre è soltanto una questione di prospettiva. A volerlo vedere c’è ben altro dietro i piccoli tradimenti, la brama di fama, i rapporti preconfezionati che scricchiolano per definizione, la voglia di sentirsi vivi perché si ha paura della morte (e il consuocero titolare di pompe funebri proprio non aiuta). Purtroppo, però, è uno strambo esperimento destinato a non lasciare il segno, un frutto dalla buccia così poco invitante che ti fa passare la voglia di cercare la polpa. E’ proprio come quel consuocero, che mentre si insapona sotto la doccia canta da dio. Ma Woody ha lasciato i rubinetti a metà. Si sente giusto una voce flebile. Per il resto è il solito becchino.

Chronicle

The Blair Hero Project. I superumani incontrano Real Tv, ed è tutta un’altra storia. Poco fumetto, tanto realismo. Il taglio è autoriale, la ripresa sembra amatoriale. La telecamera è quella dei protagonisti, e l’unica variante sono le immagini a circuito chiuso prelevate qua e là. Di fronte all’obiettivo ci sono sempre loro, i tre super(non)eroi. Che hanno una missione soltanto. Colpire allo stomaco un intero genere, uccidendo la meraviglia a colpi di cruda realtà.

Al bando armature e mantelli, scudi e martelli, lanciaragnatele e artigli retrattili. I telecineti della porta accanto non hanno costumi né maschere. Forse. Di certo conosceranno tutti i problemi del caso. Un giorno si accorgono di saper muovere le cose con il pensiero. Poi capiscono di poter spostare anche se stessi. I Superman autodidatti cominciano a volare, ed è l’inizio di un’escalation alquanto pericolosa. Di un gioco che sembra tale, ma che in fondo è il suo esatto contrario.

In Chronicle c’è tutta una generazione. Giovani in eterno bilico tra il bullismo e la ricerca di un posto nel mondo, tra le turbe familiari e le malattie che non puoi fermare nemmeno con i poteri. L’estetica è la stessa di Youtube, la logica è quella del videoclip-bravata che impazza in Rete. I tre super-ragazzi sono eternamente inquadrati, come in un Grande Fratello volontario. Solo il suono tradisce il tutto. Perché avvolge. Travolge. Sconvolge. Mica roba fatta in casa.

Il film dell’esordiente Josh Trank (co-ideato e sceneggiato da Max Landis) trasuda tecnica e genio. E’ il figlio di un noto documentarista, e in un certo senso si vede. La forma è quella di un falso videotape, montato in modo sporco secondo la logica elementare dell'”on/off”. La sostanza, invece, è la stessa del genere che da oltre un decennio impazza nelle sale. Andrew, Matt e Steve sono poco eroi ma tanto tanto super. Però restano pur sempre i telecineti della porta accanto, con i loro limiti e le loro virtù. Il problema non è tanto la gestione dei poteri, quanto il controllo delle emozioni che ci rendono umani.

Il resto è storia. Una storia che non ha l’odore del nuovo (il cinema e soprattutto i fumetti hanno già proposto trame simili), ma che mantenendosi salda sui binari dell’intimità ha comunque molto da dire. Nonostante certi inevitabili cliché. La magia sta proprio nel meccanismo audiovisivo che rimanda ai filmini di famiglia. E’ così che tra dramma e incredulità tutto diventa talmente verosimile da sembrare reale, con inquadrature che si fanno sempre più complesse a seconda dell’evoluzione dei personaggi. Se The Avengers è il film definitivo sui supereroi, Chronicle è l’apoteosi dell’estasi disturbata e disturbante del superomismo. E dimostra che, alla fine dei giochi, da grandi poteri non derivano altro che grandi (ir)responsabilità. Con buona pace di Spider-Man.

Laputa – Il castello nel cielo

L’equilibrio è un pensiero di troppo. Si corre su cornicioni e strapiombi. Si vola e si cade come fosse normale routine. E non ci si fa mai male. Quasi. Le ragazzine piombano giù dall’azzurro che sta sopra le nostre teste, e a quell’azzurro poi si ritorna. La vertigine che tutto blocca è roba di altri mondi, non appartiene ad Hayao Miyazaki e alla sua fantasia sfrenata. Laputa – Il castello nel cielo è un andirivieni in senso verticale, che va da nord a sud e viceversa. E in cui si prova a volare alto senza tradire la morale di sempre.

L’estro del Walt Disney giapponese ha spesso portato a film squisitamente visionari ma dall’intreccio piuttosto minimal. Per questo l’ultimo ripescaggio a opera della Lucky Red non è che una mosca bianca. Una pellicola piena zeppa di storia, con una sceneggiatura così ricca che sembra scritta da altri. Ma al netto della complessità, che non sfocia mai in complicazione, basta guardare i volti dei personaggi per riconoscere il solito marchio di fabbrica. E’ tutto così “heidizzato” che qualsiasi dubbio scompare.

La trama è ambiziosa, ma in un certo senso si perde tra le nubi del non detto. Tutto si chiude e si risolve, ma restano troppi interrogativi su come si sia arrivati a tanto. Spazio all’immaginazione, dunque. Scelta stilistica o ingenuità? Non è dato saperlo. L’importante è che alla fine dei conti si intraveda il “solito” Miyazaki. Il castello nel cielo, classe ’86, si fa portatore di un messaggio che oggi appare trito e ritrito, ma di cui non ci si stanca mai. Un inno alla natura che da sempre contraddistingue le opere del maestro dagli occhi a mandorla, colui che nel 2003 ha vinto l’Oscar per l’animazione con La città incantata e che ha messo la firma su veri e propri gioielli del cinema contemporaneo come Ponyo sulla scogliera e l’incantevole Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento.

Dopo Il mio vicino Totoro e Porco Rosso, continuano così i recuperi dei vecchi tesori del maestro Hayao. E’ la volta del primo film prodotto dallo Studio Ghibli, divenuto poi sinonimo di qualità e di creatività ad altissimi livelli. Laputa (all’epoca premiato in patria come miglior cartoon dell’anno) sprizza voglia di avventura. Ha un’insolita audacia narrativa, anche se soffre per qualche dialogo un po’ irreale che forse va imputato all’adattamento italiano. L’importante è non incapronirsi a unire tutti i puntini. Meglio fermarsi al grande disegno che si vede da lontano, in nome di quell’ingenuità un po’ fanciullesca che non ha mai abbandonato la poetica di Miyazaki. Che poi gli eroi sono proprio loro, i bambini. Inseguiti da pirati buoni e da militari bastardi, a caccia di mondi nascosti tra le nuvole per riscoprire e per riscoprirsi. Hanno un passato da difendere e genitori da riscattare. Ma soprattutto Pazu e Sheeta corrono, saltano, volano, non hanno mai paura di cadere. E stanno sempre in equilibrio perché sanno fare a meno di quel pensiero di troppo.

Quasi amici

Driss ha poco tatto, Philippe lo ha perso da un po’. Il primo bada al secondo, ma non di certo a come parla. Il secondo si fa badare dal primo, perché non può di certo badare a se stesso. Ha perso la moglie, poi l’uso del corpo a causa di un brutto incidente. E addio tatto. Tutto quello che sente va dal collo in su. Il terzo personaggio non si vede ma c’è. Si chiama Ludovico e non viene mai citato, se non nei credits di testa e di coda. Ma Einaudi di tatto ne ha da vendere, e lo dimostra premendo i tasti come potrebbe fare soltanto un dio del pianoforte. Se Quasi amici è intensa poesia è anche grazie a lui.

Non basta avere coraggio, bisogna avere quello giusto. Olivier Nakache ed Eric Toledano mettono la firma su un film audace come pochi. Roberto Benigni ha avuto l’ardire di sdrammatizzare l’Olocausto. I due registi, invece, partono da una storia vera per dimostrarci come anche un paraplegico possa gridare che “la vita è bella”. Merito di Driss, un personaggio riuscito come non mai. Spontaneo e tremendamente sfrontato, dissacra l’handicap ridendoci e facendoci ridere. Quasi amici cammina di buona lena sopra un filo esile e tanto tanto sottile. Basterebbe una piccola sbandata, una scossa leggera, e si cadrebbe giù nel baratro del rispetto negato. E invece no. Il capolavoro “made in France”, campione d’incassi, sta nei sorrisi e nelle risate di (e provocate da) Omar Sy, il badante nero ma con la faccia di bronzo che a differenza degli altri tratta Philippe (François Cluzet) come una persona comune. In fondo è per questo che  lo ha scelto, per la sua assenza di pietà. Un “quasi amico” ha bisogno soltanto di una boccata d’aria, perché respirare è davvero bellissimo.

Skyline

Dialoghi buttati lì e personaggi tamarri senza ossatura. Interessante solo il finale, qualcosa che non ti aspetti, anche se poco giustificato. Buona la resa visiva, nonostante il budget limitato. La sceneggiatura invece latita. Gli autori sono alla loro prima prova, e si vede.