Un bambino come coscienza e una normalità da schivare. Una crisi esistenziale, silenziosa come la periferia romana a Ferragosto. Una solitudine esteriore, ma soprattutto interiore. L’incapacità di sentire, l’impossibilità di sentirsi. Nina è un racconto visivo di formazione. Diane Fleri (Come te nessuno mai, Mio fratello è figlio unico) offre a questa produzione minore (come appetibilità commerciale, non di certo come anima) le sue doti innate in comodato d’uso. Tra le altre, una bellezza semplice e d’impatto, e una erre moscia che male si sposa con il nome del cane che porta quasi sempre al guinzaglio. Quattro zampe, una coda e una presunta depressione: la dogsitter improvvisata fa di Omero un alibi per mettere il naso fuori di casa. Per incontrare il nulla cosmico dell’Eur, arso dalla calura e spopolato dalle ferie.
Ma la bellezza è sempre dietro l’angolo. Il film di Elisa Fuksas, al suo esordio con un lungometraggio, è proprio come il quartiere romano. Freddo, nonostante la colonnina di mercurio, ma soltanto in apparenza. Vuoto, ma in realtà pieno. La regista è bravissima a raccontare questa pienezza attraverso la furba illusione del niente. Figlia di Massimiliano, celebre architetto, e laureata a sua volta in architettura, sfrutta il suo occhio allenato per mettere a fuoco la bellezza delle strutture, dei colonnati, dei marciapiedi, dei pochi bar aperti nei paraggi. Dove la vita sembra essere andata in vacanza. Quella di Nina, invece, è proprio da qui che potrebbe ripartire.
Non servono drammi o traumi indelebili per conferire a un personaggio la dovuta profondità. E’ come se la crisi dell’esistere fosse già in natura, come se l’equilibrio della persona fosse condannato a spezzarsi semplicemente perché è così che devono andare le cose. La vita di Nina è piena di tutto, ma in realtà è un mare senz’acqua. Fa compagnia a cani e porcellini d’India. Insegna canto. Studia cinese con un eccentrico maestro (il teatrale Ernesto Mahieux). Dribbla i potenziali amori. Corre sotto il sole cocente per smaltire le torte da sei che divora la notte. Anche il sonno, per i cuori solitari, è una specie di optional.
E’ in questo desolante scenario che incontra le poche persone (e i pochi animali) che no, non la porteranno a ritrovare se stessa, ma le faranno capire da che lato si guarda uno specchio. Tra queste anche Ettore, un bambino che sembra vivere da solo nel niente, che si insinua quando e come vuole nell’appartamento in cui alloggia la ragazza. Come un piccolo fantasma fatto di carne e di ossa, quelle di Luigi Catani, prodigio sfrontato della recitazione che non potremo che rivedere presto. Lui la farà sedere sulla poltrona di uno studio dentistico svuotato dalle vacanze, come fosse il lettino di uno psicologo. Lei la paziente, lui il dottore. Ma Nina è una figura ancora più eterea di questo enigmatico bambino. Non la proiezione olografica dell’Italia precaria, ma quella di un’intimità raffreddata dal tempo (o da chi per lui) e che ora fatica a cedere ai sensi e ai sentimenti.
Per raccontare la fuga di Nina dalla normalità, dalla minaccia di un futuro prossimo omologato che la vorrebbe con un lavoro vero, una casa e un fidanzato con cui riempire le giornate, alla Fuksas è bastato un cast essenziale, un uso moderato ma poetico della parola, un’espressività visiva e registica che parla da sé, una cura visiva che sfocia in una lucida e provvidenziale ossessione. E una trama minimal, ma densa di spirito.